EVEREST BASE CAMP TREKKING - Svalbardislands

TREKKING AL CAMPO BASE DELL'EVEREST

25 aprile, giorno di festa, di pioggia, ma soprattutto di partenza. Arri, Cipi e io arriviamo nel pomeriggio a Malpensa, emozionati per l'avventura che stiamo per intraprendere, con i bagagli carichi di tutto il necessario per affrontare il freddo himalayano. In aeroporto incontriamo i nostri compagni di viaggio, Lorenza, una giovane cinquantenne, e Federico, un biologo in viaggio di laurea.

Dopo un lungo volo, con una sosta lampo a Istanbul, arriviamo a Kathmandu in tarda mattinata. La procedura per il visto ci immerge subito nella realtà orientale, con namaste e ritmi piuttosto lenti.

Una volta ottenuto il visto, usciamo da quello che sembra tutto fuorché un aeroporto internazionale in una capitale, seppur piccola.

Una moltitudine di individui si prende cura di noi e ci carica su un minibus, diretti all'agenzia dove espleteremo le ultime formalità, non senza prima chiedere una lauta mancia, approfittando del nostro iniziale leggero disorientamento.

La sala che ospita l'agenzia ha un leggero profumo di limone ed è decorata con poster di alte montagne e con alcuni gagliardetti del CAI che simboleggiano il duraturo rapporto con l'Italia.

Dopo aver pagato la quota rimanente del viaggio e cambiato i soldi in rupie (alcune banconote da 50 euro diventano diverse decine di banconote da 1000 rupie ciascuna, con i segni del tempo decisamente evidenti), partiamo verso Khurkhot, dove passeremo la notte prima del volo per Lukla.

Scopriamo subito quanto siano scomode le strade nepalesi, piene di buche e tratti sterrati, percorse a tutta velocità da minibus carichi di turisti e camion d'epoca addobbati in modo colorato e folcloristico, che si sfiorano a ogni contatto.

Dopo circa un'ora e mezza ci fermiamo in quella che in Italia chiameremmo un'area di sosta: beviamo una Coca-Cola, mai così buona e sempre una certezza all'estero, utile per fronteggiare il caldo già percepibile.

Ripartiamo, seguendo il corso di un fiume che è il centro della piccola vita che incontriamo lungo il cammino. Infatti, vediamo gente nepalese radunarsi sulle rive del fiume, sui ponti che lo attraversano e nei campi di mais che ne costeggiano le sponde.

Quando è già buio, un po' stanchi, giungiamo a destinazione: un piccolo albergo che sembra la salvezza dopo il lungo viaggio.

Facciamo una doccia e per cena proviamo il dal bhat, un piatto tipico nepalese a base di riso e verdure, prima di crollare a letto.

La mattina dopo, partiamo alle 4:30 per raggiungere il piccolo aeroporto di Ramechap da dove prenderemo il volo per Lukla. Il viaggio è ancora più accidentato del giorno precedente.

L'aeroporto è ridicolmente piccolo, ma finge di essere un aeroporto serio, con "controlli" sia sui bagagli che su di noi.

Il peso massimo consentito per i bagagli è di 15 kg ciascuno, peso che ovviamente tutti noi superiamo, ma basta una piccola tariffa per dimenticare tutto.

Quando ci avviciniamo alla pista, la reazione è un misto di stupore e paura: ci sono effettivamente 6 piccoli aerei pronti al decollo, e uno di questi è il nostro.

Abbiamo appena il tempo di aspettare e saliamo subito a bordo: è un aereo a elica da 20 posti che quando parte ci riempie i polmoni di gas di scarico.

La cabina di pilotaggio è separata da noi, in prima fila, solo da due tende, ma c'è una hostess gentilissima che ci ricorda le procedure di sicurezza da seguire in volo.

Il decollo è rapido e voliamo quasi a vista, nonostante le nuvole tutt'intorno ci impediscano di avere una visuale ottimale dei dintorni. Dopo 20 minuti, un brusco calo di quota ci avverte che il viaggio sta per concludersi, con l'atterraggio sulla famosa pista di Lukla: una breve striscia di asfalto, in salita, con un muro che ne segna la fine.

Nonostante queste premesse, l'atterraggio è molto meno traumatico del previsto: siamo finalmente a Lukla, dove avrà inizio il nostro trekking.

Ci guardiamo intorno un po' sconcertati ma anche consapevoli che questa è ormai la porta d'accesso all'Everest per tutti gli alpinisti, passati e futuri. Recuperiamo i bagagli e ci dirigiamo verso il lodge dove faremo colazione.

Sono solo pochi metri, ma sembrano infiniti, perché dobbiamo portare con noi anche il bagaglio da stiva: capiamo subito che non ringrazieremo mai abbastanza gli yak per essersi caricati sulle spalle questo carico.

In quel momento scopriamo che non saranno i facchini a trasportare i nostri bagagli, il che ci fa sentire più sereni circa il peso delle cose aggiuntive che abbiamo portato con noi per precauzione.

Ammiriamo le cime che ci circondano mentre aspettiamo la colazione (scopriremo poi che i tempi di preparazione nepalesi sono piuttosto lunghi), notando subito come la vegetazione cresca a quote ben più elevate rispetto alle nostre zone: siamo a 2860 metri, e vediamo ancora almeno mille metri di piante più in alto.

Allo stesso tempo, notiamo come la soglia delle nevicate sia molto più alta di quanto ci aspettassimo.

La latitudine a cui ci troviamo, unita all'effetto schermante dell'Himalaya sulle correnti fredde provenienti da Nord, rende tutto questo possibile.

Nel frattempo, le nostre colazioni sono pronte: iniziamo ad abituarci ad alcuni piatti locali come i chapati, delle specie di focacce calde servite con miele e marmellata... niente male!

Nel frattempo, il nostro facchino sta caricando i bagagli sul dorso degli yak che ci accompagneranno nel nostro viaggio. Una volta fatto tutto, possiamo finalmente partire.

Dall'alto vediamo la pista dove siamo atterrati e, dopo aver scattato le foto di rito, ci dirigiamo verso l'inizio del percorso di trekking. Siamo già stupiti dalla quantità di negozi che lo popolano, dove si può trovare tutto il necessario per il viaggio, dai prodotti per l'igiene all'abbigliamento tecnico, sulla cui originalità dubitiamo parecchio.

Lama, la nostra guida sherpa, ci consegna i permessi necessari per camminare nel Parco Nazionale Sagarmatha: siamo ufficialmente in viaggio.

Il sentiero è largo e ben tenuto, ed è percorso da molti escursionisti, in entrambe le direzioni, di tutti i tipi ed età, alla cui varietà ci abitueremo presto.

Si snoda lungo il pendio della valle, in leggera discesa verso la nostra meta di oggi, Phakding. Questo è di grande aiuto per le mie condizioni fisiche, che, pur migliorando sensibilmente, restano comunque precarie: l'inizio del viaggio mi ha procurato un forte mal di gola, che sto combattendo con antinfiammatori e antibiotici.

Ci accorgiamo subito che, nonostante per noi sia un'altitudine elevata, qui la vita è molto vivace. Lungo il sentiero si trovano abitazioni, negozi e lodge: è il popolo degli Sherpa, che si è insediato in queste zone direttamente dal Tibet, e che è diventato presto un popolo benestante, grazie alle sue peculiarità: oltre all'allevamento di bestiame, principalmente yak, e all'agricoltura, basata su patate e verdure resistenti al clima, la grande fortuna degli Sherpa era la loro abilità nel commercio, soprattutto tra India, Nepal e Tibet, lungo strade che solo loro erano in grado di percorrere con carichi pesanti sulle spalle.

Le loro capacità commerciali hanno trovato terreno fertile nel turismo himalayano, cercando però di mantenere le peculiarità che li caratterizzano.

Ed è proprio in uno dei lodge (potremmo chiamarli letteralmente locande, che offrono alloggio e cibo) che ci fermiamo per la prima volta a Ghat, dopo circa 1 ora e 15 minuti, per quella che diventerà presto una tradizione: il tè di metà mattina.

Ce n'è per tutti i gusti, e impareremo a conoscerli pian piano: il tè alla menta, con foglie di menta fresca per aromatizzarlo (finché il clima non ne consente la coltivazione), il tè allo zenzero, con zenzero tritato o tagliato a fettine sottili immerso (ci vuole coraggio a mangiarlo a fine bevanda), fino al classico tè nero o al tè al limone.

Incontriamo anche i primi monumenti sacri, come gli stupa, costruzioni bianche a base quadrata, sulle quali si innalzano verso il cielo strutture circolari, a sostegno di un pinnacolo dorato, decorato con gli occhi del Buddha, oppure numerose rocce, sulle quali sono incise strane iscrizioni o pitture, colorate in bianco e nero, o ancora strutture cilindriche, anch'esse abbondantemente decorate, da far ruotare per propiziare la fortuna, attestata dal suono di una campana all'interno di quelle più grandi.

Tutti questi simboli sacri devono essere rigorosamente passati sulla sinistra, ci dice Lama, per sperare in un futuro luminoso. Alla fine del trekking, lo avremo ampiamente guadagnato, crediamo.

Dopo questa prima immersione nelle credenze religiose nepalesi, giungiamo a Phakding, non prima di aver incontrato numerose processioni di asini e yak, qui utilizzati come mezzo di trasporto: 15-20 bestie, con taniche d'acqua e bombole di gas sulla schiena. Ci abituiamo in fretta.

Il villaggio si trova dall'altra parte del fiume, che attraversiamo su uno di quei ponti che si vedono spesso nelle fotografie, sorretto da corde metalliche, traballante e decorato con colorate bandiere di preghiera nepalesi, che da ora in poi ci accompagneranno ininterrottamente.

Superando gli accenni di vertigine che derivano dal guardare troppo nel vuoto sotto il ponte, giungiamo al lodge, situato nel punto più alto del villaggio. È costruito in pietra granitica, estratta dalle rocce della valle, come quasi tutte le strutture circostanti, con tetto in lamiera e infissi di colore verde, che insieme al blu sono i colori più gettonati per questo tipo di dettagli.

All'interno c'è una sala comune, con tavoli e panche per mangiare, e al piano superiore ci sono le camere, tutte doppie, ed è interamente costruita in legno.

Ci sediamo fuori, per godere di una vista che ci sembra già meravigliosa, e non abbiamo ancora visto niente, pronti a goderci il primo, meritatissimo, pranzo: il menù è vario e decidiamo di provare i momos di pollo, ma la scelta si rivela troppo piccante. Fortunatamente, una birra ci aiuta a lenire la gola che brucia.

Dopo aver resistito alla tentazione di un pisolino post-pranzo sotto il caldo sole di mezzogiorno, partiamo per una breve passeggiata fino al tempio che domina il villaggio. Ormai si è annuvolato e, quando arriviamo in cima, la valle è appena visibile: scopriremo, infatti, che quasi tutti i voli per Lukla, dopo il nostro, sono stati cancellati. Siamo stati molto fortunati!

Il tempio è molto colorato, sia all'esterno, con il rosso come colore dominante, sia all'interno, dove alcuni monaci si dedicano con estrema cura alla pittura delle pareti con scene variegate, a metà tra realtà e fantasia, curate nei minimi dettagli.

Al termine della visita, un giovane monaco ci offre un tè al latte, dal sapore discutibile, che però non possiamo rifiutare e che quindi beviamo, seppur con riluttanza, per ringraziare dell'ospitalità che ci ha colto di sorpresa.

Torniamo poi al lodge, dove, tra una partita a carte e una deliziosa doccia calda, aspettiamo la cena. Fa buio abbastanza presto e, considerando la sveglia mattutina del mattino dopo, decidiamo di andare a letto relativamente presto, proprio mentre inizia a piovere forte.

Chiediamo quindi a Lama, già intimorito dall'idea di dover marciare il giorno dopo sotto la pioggia, se sa quali sono le previsioni meteo. Lama non si scompone e risponde con un laconico "a volte piove, a volte c'è il sole", che è superfluo dire e diventerà la citazione della vacanza.

La mattina dopo, però, ci svegliamo con un cielo azzurro, e partiamo per Namche Bazaar. Ci aspetta una lunga tappa con molto dislivello, e siamo accompagnati da un sole che ci costringe presto a spogliarci e a spalmarci la crema solare. Costeggiamo il bel fiume lungo il pendio della valle e continuiamo ad attraversare piccoli villaggi dove assistiamo a scene di vita quotidiana: facchini con assi e tavole di legno sulla schiena, ragazze in divisa che si tengono per mano, che vanno a scuola lungo lo stesso sentiero che stiamo percorrendo noi, uomini e donne al lavoro per trasformare la roccia in pietre utili per costruire i sempre più diffusi nuovi lodge.

Il cielo terso ci permette di vedere in lontananza le prime cime: cime che superano i 6000 metri cominciano a stagliarsi all'orizzonte, ben oltre il punto che è la nostra meta della giornata e che possiamo già immaginare oltre la collina che vediamo, 800 metri più alta di noi.

Dopo circa un'ora di cammino, raggiungiamo Monjo, dove si trova la scuola dove erano dirette le ragazze che abbiamo incontrato, e poi Dhorsali, dove otteniamo ufficialmente i permessi per il trekking nel parco dell'Everest.

In queste ore incontriamo quasi tutti gli italiani che incontreremo lungo il cammino: innanzitutto tre signori, di cui uno di Lovere, che ci mettono in guardia dalla folla che troveremo lungo il cammino, ma che noteremo solo nei tratti più prossimi al campo base.

Poi un gruppo di avventurieri, che hanno avuto la brillante idea di raggiungere il campo base in bicicletta, e che ci raccontano come, per la maggior parte del tempo, abbiano dovuto spingerle anziché pedalarle: sforzi necessari per permettere al comico del gruppo di esibirsi nello spettacolo comico più in quota e al cuoco della spedizione di cucinare una carbonara al campo base. Una barzelletta stancante, direi. Incontriamo anche un altro gruppo di adventurersiintheworld, di ritorno da un trekking più breve, poco prima della nostra consueta pausa tè.

Dopo questa pausa, attraversiamo un altro ponte che ci porta dall'altra parte, dove un continuo saliscendi e manovre tra muli e yak ci porta a un ponte molto più scenografico: si trova infatti alla confluenza di due fiumi ed è molto più alto di quelli che abbiamo attraversato finora. Per questo motivo, ha davvero meritato di apparire nel film Everest.

Usciamo quindi dalla valle e iniziamo la salita tanto temuta e attesa: è dura come previsto, per questo la affrontiamo con numerose pause, necessarie anche perché il caldo e la sete si fanno sentire molto presto.

Lungo la salita, qualcuno comincia a mostrare i primi segni di fame, mentre ci imbattiamo in giovani portatori, che salgono al nostro stesso ritmo, nonostante trasportino sulle spalle carichi ben più pesanti dei nostri. Forse per questo, i loro sguardi, quando incrociano i nostri, discretamente stanchi, sono leggermente beffardi. Restiamo stupiti dal loro abbigliamento: spesso indossano scarpe normali o addirittura pantofole, hanno i capelli all'occidentale, spesso tinti, e sono accompagnati da musica ad alto volume da smartphone o altoparlanti portatili.

Finalmente il sentiero si fa pianeggiante e, dopo gli ultimi sforzi, arriviamo a Namche Bazaar, che ci accoglie con negozi di ogni genere, compresi quelli di attrezzatura tecnica con i marchi più famosi per l'alpinismo d'alta quota.

La via principale ci fa capire che siamo nella capitale turistica della regione: troviamo bar, ristoranti, pub, farmacie, uffici di cambio, banche, persino un parrucchiere, oltre a numerose strutture ricettive. In una di queste, troviamo alloggio giusto in tempo per il pranzo.

Nel pomeriggio, facciamo una passeggiata nel villaggio, che è pieno di gente: escursionisti di ogni tipo, abitanti locali e strani personaggi il cui preciso scopo non è del tutto chiaro. Arriviamo all'ingresso principale del villaggio, attualmente in fase di ampia ristrutturazione, da dove possiamo vedere come tutte le case abbiano un aspetto decisamente rustico. Presto capiamo perché: vediamo operai impegnati a fabbricare mattoni a mano, scene che ricordano l'Italia degli anni '60.

Per cena ci gustiamo una deliziosa bistecca di yak, meravigliandoci di come la cucina si sia adattata al boom turistico, proponendo menù molto più ampi e occidentalizzati di quanto ci aspettassimo, mentre osserviamo le numerose fotografie delle montagne sulle pareti del lodge, montagne che presto vedremo con i nostri occhi.

La sera andiamo a bere una birra al pub: le pareti sono adornate da magliette ricordo di escursionisti e alpinisti, un grande schermo trasmette sport da tutto il mondo e una piccola televisione trasmette programmi di alpinismo. È frequentato da persone di tutte le età e tipologie, unite da una birra e un piumino. C'è persino un tavolo da biliardo e per un attimo non sembra nemmeno di essere a 3440 metri. All'improvviso, quando il pub è già vuoto, all'ora in cui di solito arriviamo, inizia a proiettare sul piccolo schermo il film Everest e nei primi 15 minuti di proiezione vediamo i luoghi appena superati: gli aeroporti di Kathmandu e Lukla, il ponte sospeso, l'arrivo a Namche. Ce ne andiamo prima di vedere i luoghi che dobbiamo ancora raggiungere, come se non volessimo spoiler.

La notte, complici i sacchi a pelo, il freddo, l'altitudine e la birra, non è delle migliori, ma al mattino ci svegliamo abbastanza riposati, rinvigoriti da un cielo terso. Ho un leggero mal di testa, ma intanto la mia gola sta migliorando: l'antibiotico sta facendo effetto.

Un budino al cioccolato a colazione e la partenza in salita su per le scale non sono il binomio migliore per affrontare la giornata a testa alta, ma fortunatamente il museo culturale Sherpa viene in soccorso della mia digestione, dove apprendiamo alcune curiosità sul luogo e sulle persone che lo abitano.

All'uscita, vediamo per la prima volta, in tutta la sua grandiosità, la cima dell'Everest, che incombe alla fine della valle. Non ci sono nuvole che ostruiscono la nostra visuale, che si estende su Nuptse, Lhotse e Ama Dablam (una presenza costante che ci accompagnerà per molti giorni). La vista è davvero splendida, e dentro di noi sorge una piccola ma grande emozione.

Lasciamo poi il museo per dirigerci verso i villaggi Sherpa, meta di questa giornata di acclimatamento. Prima di raggiungerli, però, facciamo una sosta all'Everest View Hotel (3880 metri), che raggiungiamo dopo una ripida salita, superando un dislivello di oltre 300 metri: poche centinaia di gradini, tanta fatica. La vista è ancora migliore della precedente, quindi la fatica è ben ripagata, anche se il tè che l'accompagna non è dei più economici: dopotutto, siamo in un hotel d'alta quota, non in un lodge, e il servizio è ben diverso.

Nel frattempo assistiamo anche all'atterraggio di un pilota di elicottero alle prime armi dell'esercito nepalese; ci rendiamo conto dell'importanza del vento, che in due occasioni gli impedisce l'atterraggio, costringendolo a ripetere la manovra di avvicinamento.

Per ogni elicottero che atterra, ce ne sono molti altri che viaggiano su e giù per la valle, sfruttando condizioni meteorologiche impeccabili.

Siamo pronti a proseguire, quindi scendiamo verso Khumjung, dove visitiamo la scuola fondata da Edmund Hillary: qui i bambini Sherpa possono ricevere una buona istruzione, beneficiando di classi piccole e ben tenute, ma anche di numerose aree gioco.

Il villaggio si trova fuori dal classico percorso di trekking ed è quindi più originale. Vediamo donne che cuciono nei piccoli cortili delle case, grandi aree recintate utilizzate per il pascolo dei cavalli e uomini che trasportano ceste piene di paglia sulla schiena. C'è anche un bel monastero, ma è chiuso: ci arrangiamo.

Siamo su un altopiano sopra i 3800 metri di quota, e questo comincia a farsi sentire, ma continuiamo la nostra camminata raggiungendo il vicino villaggio di Khunde. Qui possiamo visitare, con estremo interesse, il piccolo ospedale, dedicato principalmente alla popolazione locale: un giovane e gentile medico ci concede di visitarlo, e notiamo come ci sia tutto il necessario per gestire le principali emergenze, tra cui anche un piccolo reparto maternità, completo di incubatrice, dove ogni anno nascono 30 piccoli sherpa. Davvero un piccolo gioiello.

Dopo l'ospedale, ci dirigiamo verso il tempio, situato in cima a una rapida ma ripida salita: qui, un'anziana signora tibetana ci offre una tazza di tè, accompagnata da pane tibetano leggermente raffermo, ma non possiamo rifiutare. Possiamo però apprezzare come i tratti del viso della signora siano diversi da quelli delle donne Sherpa, con un viso più fine e allungato, a testimonianza di una diversa origine.

Mangiamo un piatto di patate e cipolle appena cotte nel villaggio, che sono davvero gustose nonostante siano state cucinate al volo. Alle 3 dobbiamo essere a Namche, ci informa la guida, perché c'è la possibilità di assistere alla proiezione di un film sulle scalate dell'Everest, quindi ci affrettiamo a scendere, nonostante le obiezioni del nostro stomaco.

Arrivati ​​al villaggio, scopriamo che non si tratta di una qualche forma di controllo organizzato per accogliere i turisti, ma di una semplice iniziativa di un bar: ci facciamo coraggio e malediciamo Lama per averci fatto andare via con il pranzo ancora nello stomaco.

Il documentario affronta il mondo delle scalate dell'Everest da parte degli Sherpa, una prospettiva sicuramente diversa e interessante, che fa riflettere su come per loro si tratti prima di tutto di un lavoro duro, ma che consente a loro e alle loro famiglie di vivere meglio.

Dopo cena, ripetiamo la passeggiata per le vie di Namche alla ricerca di un posto dove trascorrere la serata: troviamo un bar molto curato, che un tizio discretamente alticcio ci aveva consigliato con un inequivocabile "cappuccino buonissimo"! Decido di fidarmi, e posso confermare che l'insegna Illy esposta fuori dal locale non è stata messa lì per caso.

La notte trascorre decisamente meglio della precedente: segno che ci stiamo un po' acclimatando, per ora senza dover ricorrere alle scorte di Diamox che Cipi ha saggiamente portato con sé.

La mattina dopo ci svegliamo con un cielo ancora più terso del precedente e così, dopo aver faticato a chiudere le valigie, ripartiamo, affrontando ancora una volta la lunga scalinata che porta fuori dal centro abitato.

Può sembrare strano, ma lasciare Namche è come lasciare la civiltà alle spalle: in parte perché c'era la sensazione di poter trovare lì tutto ciò di cui avevamo bisogno, e in parte perché sembra che da lì in poi le comunicazioni con casa saranno impossibili, perché non troveremo più lodge che forniscono il WiFi. Sebbene strano, sembra di perdere qualcosa, segno di come la possibilità di essere sempre connessi faccia ormai parte della nostra quotidianità.

La strada che prendiamo serpeggia dolcemente sul versante destro della valle, e lungo il cammino ci accompagnano alcuni cani randagi. Ne abbiamo visti molti, e continueremo a vederli: sono bellissimi, anche se sporchi e mal curati, dormono appoggiati ai muri delle case, le zampe rivolte verso la strada. Hanno il pelo corto e ispido, il muso allungato, e non li senti mai abbaiare. Sembrano amichevoli, cercano solo una semplice carezza.

Attraversiamo piccoli villaggi composti da poche case, in una fitta foresta di rododendri, la loro pianta sacra. Alcuni di questi sono in fiore e ci regalano immagini bellissime. Altrettanto bello continua a essere il panorama, con l'Ama Dablam sulla nostra destra, che si avvicina progressivamente.

In questa fitta foresta, la strada inizia a scendere verso il fiume, che attraversiamo con un altro ponte sospeso. Ci fermiamo per il tradizionale tè ai piedi della salita di giornata: 600 metri di dislivello quasi verticale che ci porteranno a Tengboche.

Le risaliamo a fatica, fermandoci ogni 10-15 minuti: una salita del genere ci metterebbe a dura prova anche a casa, figuriamoci a queste altitudini. Il terreno è sabbioso e si solleva molta polvere. Il sole ci scalda e non possiamo far altro che affrontare la salita in maglietta. Una volta trovato il ritmo, accompagnando ogni passo con un respiro profondo e gestendo con saggezza le pause, che diventano sempre più frequenti, arriviamo in fondo alla salita in poco più di un'ora. Davanti a noi, Tengboche: un tempio e qualche lodge. Ci aspettavamo di più, ma vediamo la panetteria tanto decantata nelle guide e ci corriamo. Ci sentiamo meritati un caffè, seguito da un pranzo a base di hamburger di pollo: il menu è, come sempre, molto internazionale. Ci spalmiamo di panna per resistere al sole e testare la nostra saturazione di ossigeno. Siamo ancora vivi!

Nel frattempo cominciamo a conoscere meglio Lama: chiacchieriamo spesso, chiedendogli anche di raccontarci cose banali, nel suo inglese stentato e nel nostro inglese adattato al suo.

Dopo pranzo, una visita al tempio è d'obbligo: è qui che gli alpinisti che scalano l'Everest eseguono la *puja*, la tradizionale cerimonia portafortuna. Ci togliamo le scarpe per entrare e all'interno troviamo due file di sedili su entrambi i lati, con le tradizionali vesti rosso-arancio dei monaci. Di fronte a noi, ci sono statue che raffigurano varie forme di Buddha, mentre le pareti sono decorate con gli stessi dettagli meticolosi che avevamo già visto a Phakding: una gamma vibrante di colori, forse persino un po' opprimente.

Anche se questo sistema di credenze è lontano dalle nostre convinzioni, è comunque toccante trovarsi in un luogo che, per chiunque tenti di scalare la montagna più alta della Terra, rappresenta uno spazio per un rituale di buona fortuna e protezione.

Scattiamo qualche foto di gruppo fuori dal tempio e poi continuiamo il nostro viaggio verso Pangboche, affrontando subito una ripida discesa. Proseguiamo lungo il lato sinistro della valle, dove il fiume scorre vigorosamente più in basso, offrendo viste mozzafiato finché non lo attraversiamo di nuovo.

Un vento pungente inizia a sollevarsi, ma con un ultimo sforzo per la giornata, raggiungiamo la fine della salita, segnata da un passaggio pittoresco attraverso un cancello decorato. Speriamo di vedere il villaggio davanti a noi, ma abbiamo ancora qualche centinaio di metri di terreno pianeggiante da percorrere prima di raggiungere il lodge, dove arriviamo nel primo pomeriggio.

Giusto il tempo di una partita a carte all'aperto e poi ci rendiamo conto che è ora di rientrare; una doccia calda, un lavaggio al lavandino esterno e siamo come nuovi.

A quel punto, il vento si è placato e ha portato con sé le nuvole: un cielo terso ci offre splendide viste sulle cime innevate circostanti. Sono così vicine che sembra di poterle toccare. Presto, sono immerse nelle tonalità rosa del tramonto, rendendole ancora più incantevoli, in particolare Ama Dablam, la montagna solitaria, che esige di essere fotografata.

A cena, un piatto di riso con uova, pollo e verdure si rivela un pasto inaspettatamente soddisfacente, e Lama ci mostra una raccolta di foto di altri trekking in cui ha fatto da guida: i paesaggi del Mustang e della regione dell'Annapurna sono molto affascinanti e lui ne è giustamente orgoglioso.

Ma il punto forte di questo lodge è il bagno: il sedile del water è piuttosto inclinato e, non sapendolo prima, siamo rimasti non poco sorpresi.

La notte è abbastanza riposante e la mattina dopo attraversiamo il villaggio seguendo la strada principale: lo scenario è dominato da lodge e negozi, delimitati da muri a secco che delimitano le varie proprietà.

La giornata è ancora bella, anche se il freddo mattutino ci costringe a coprirci un po' di più, con l'eccellente aiuto dei nostri gilet di piumino. Lungo il cammino, incontriamo parecchie persone. Come al solito, superiamo gli yak che trasportano i nostri bagagli: continuiamo a meravigliarci di come il portatore che li accompagna percorra il sentiero con dei semplici sandali, mentre noi trekker non possiamo fare a meno delle nostre scarpe tecniche, che a fine viaggio saranno state messe a dura prova.

I facchini sono davvero qualcosa di unico: trasportano due o più zaini, legandoli misteriosamente alla fronte con corde e cinghie, camminano curvi senza quasi vedere la strada davanti a sé e, quando si fermano per riposare, hanno sempre cura di deporre il carico senza sforzarsi eccessivamente.

Chiediamo a Lama maggiori dettagli sulle loro vite, e lui ci dice che il costo della vita per i portatori lungo il cammino sta diventando sempre più alto. A differenza del passato, quando potevano dormire liberamente nelle stanze comuni dei lodge, questa comodità non è più così comune, e ora devono ricorrere a sistemazioni speciali chiamate porter's house, che forniscono loro cibo e alloggio, ma a pagamento.

Per questo motivo, ci sono sempre meno portatori disponibili, soprattutto per le agenzie di trekking, che sembrano essere meno generose delle spedizioni ad alta quota. Ed è per questo che a volte è necessario affidarsi agli yak, più costosi ma sempre disponibili. Almeno, questo è ciò che ci suggerisce.

Alcuni di noi stanno iniziando a sentire gli effetti dell'altitudine: siamo oltre i 4.000 metri e la vegetazione intorno a noi sta cambiando. Il paesaggio sta diventando più arido, con gli alberi che lasciano il posto a piccoli arbusti che crescono su terreni asciutti e sabbiosi, dove il sentiero si perde e si divide in sentieri scavati dall'acqua durante la stagione delle piogge. In questo paesaggio alterato, trascorriamo un'ora di trekking attraverso quello che sembra un ambiente ultraterreno finché non ci fermiamo in una sala da tè ai piedi della salita.

È una piccola casa di pietra, che emana un odore pungente di fumo, anche se non vediamo camini. Dopo aver bevuto il nostro tè, sbircio dentro per dire a Lama che siamo pronti a ripartire e colgo l'occasione per guardarmi intorno: noto che i muri sono completamente anneriti dal fumo, come avevo immaginato.

Affrontiamo poi la salita verso Dingboche, una salita breve ma intensa che ci mette nelle gambe ma che ci ricompensa alla fine con una bella vista sul villaggio. Preceduta da uno stupa molto pittoresco, Dingboche occupa una grande pianura accanto al fiume. I campi sono delimitati dai suddetti muri in pietra, senza alcun sentiero apparente per orientarsi nel labirinto di sconosciute strutture geometriche, tra cui spiccano i tetti di lamiera delle case, con i nomi dei lodge o dei negozi dipinti di bianco. È metà mattina quando raggiungiamo il nostro lodge, che offre una splendida vista da un'altra angolazione dell'Ama Dablam. Decidiamo di prolungare lo sforzo per la giornata per assicurarci un migliore acclimatamento: un sentiero che individuiamo sul versante opposto e una rapida occhiata alla mappa ci spingono a dirigerci verso un punto panoramico ai piedi della montagna.

Ci sforziamo parecchio per trovare un passaggio che ci conduca al fiume, realizzando alla fine che dovremo scavalcare alcuni muri e violare una proprietà privata. Una volta raggiunto il letto del fiume, troviamo il ponte che Lama ci aveva indicato. Definirlo traballante sarebbe un complimento: è una trave di metallo con spesse assi di compensato in cima, sotto la quale il freddo fiume grigio-blu scorre rapido e impetuoso. Lo attraversiamo velocemente e lo lasciamo alle spalle.

Il sentiero che avevamo visto dal lodge ha la giusta pendenza per permetterci di mantenere un ritmo veloce ma non eccessivamente faticoso. Tuttavia, quando raggiungiamo una radura, la pendenza si fa più ripida. A questo punto, il ritmo è dettato dal nostro respiro: un passo, un respiro, profondo e rigorosamente a bocca aperta. Il nostro battito cardiaco si adatta, battendo a frequenze significativamente più alte. Le pause diventano frequenti e necessarie e ogni volta che ripartiamo, significa cercare il ritmo giusto e resistere alle richieste di aiuto delle nostre gambe, che richiedono più ossigeno.

Come se non bastasse, dalla valle si alza un vento gelido che ci costringe a coprirci con il nostro piumino e il nostro cappello delle Isole Svalbard, che abbiamo saggiamente infilato negli zaini.

Abbandonata l'idea di raggiungere il punto panoramico a 5.000 metri, decidiamo di vedere almeno i laghi segnati sulla mappa appena sopra dove dovremmo essere. Li troviamo, ma da un punto diverso da quello che ci aspettavamo e, cosa più importante, ne vediamo solo il fondo: sono completamente prosciugati, lasciando solo rocce e il terreno sterile che un tempo costituiva il fondale del lago.

Niente di che: siamo proprio sotto l'Ama Dablam e ne approfittiamo per qualche foto di gruppo. Vista dal basso, la montagna è straordinaria: enormi seracchi che sembrano sospesi miracolosamente e pareti sporgenti caratterizzano questo versante della montagna, motivo per cui la salita avviene dal versante meridionale più accessibile. Ci accompagnerà per tutto il cammino, ma non ci stancheremo della sua presenza.

Il freddo alle mani e la fame ci fanno scendere rapidamente, riscaldandoci man mano che raggiungiamo la riva del fiume, che attraversiamo sul solito ponte traballante. Da qui, attraversiamo muri di pietra e campi con yak al pascolo, per poi tornare al lodge.

Per pranzo, un hash brown, evoluzione più morbida del rösti, ci sazia nella grande sala comune del lodge, dove, come da tradizione, i tavoli e le panche ricoperti di tappeti sono disposti lungo il perimetro. Le grandi finestre, pur non isolando molto dall'esterno, offrono una bella vista sul villaggio e sugli scorci lontani della valle.

C'è ancora il sole, quindi ne approfittiamo per fare un po' di bucato: il lavandino è ovviamente all'esterno, l'acqua è gelida e viene usata anche per l'igiene personale. Ci laviamo i denti aprendo un rubinetto che rilascia l'acqua da un barile blu dove era stata precedentemente raccolta.

Lo stesso sistema viene utilizzato per la doccia (una piccola stanza ricavata da alcune lamiere): la ragazza che mi passa le chiavi controlla il livello dell'acqua nel barile prima di darmi il via libera e mi dice: "Penso che per te sia sufficiente...", molto rassicurante.

Le luci a risparmio energetico nella stanza ci guidano verso la cena, che è ordinaria, e verso le attività post-cena, tra cui partite a carte e la compagnia di un numeroso gruppo di russi, il cui leader domina la scena nel lodge, spiegando ad alta voce cosa faranno nei giorni successivi.

Cerchiamo anche di capire come sfruttare al meglio le giornate a venire, visto il peggioramento delle previsioni meteo: una coltre di nuvole nel frattempo ha raggiunto la valle, impedendo al nostro bucato di asciugarsi correttamente.

Quando la stanchezza si fa sentire, ci ritiriamo nelle nostre stanze, separate dalla sala comune, dove i materassi freddi e duri e la nuova altitudine raggiunta non ci aiutano a riposare bene, provocando risvegli frequenti.

L'ultimo risveglio avviene quando è già mattina, e nonostante i timori della sera prima, il cielo è terso e nulla ci fermerà nell'escursione di acclimatamento al Chukhung Ri, 5.550 metri: gli oltre 1.000 metri di dislivello mi lasciano titubante, ma partiamo lo stesso, con zaini molto più leggeri.

Nonostante il sole brilli alto nel cielo, cominciamo ad avvertire un freddo mattutino molto più pungente; partiamo più imbacuccati e lasciamo rapidamente il villaggio alle nostre spalle, addentrandoci in un paesaggio simile a quello brullo del giorno prima, risalendo lungo la riva destra del fiume.

Lungo il cammino, incontriamo una ragazza australiana che, nonostante abbia un ritmo diverso, attacca subito bottone. L'avevamo notata nei giorni precedenti, desiderosa di condividere la sua esperienza con gli altri, visto che viaggia da sola: il suo è un viaggio ambizioso, con l'intenzione di completare il trekking dei Three Passes, che si snoda anche attraverso le valli laterali di quella che stiamo seguendo verso il campo base. La nostra guida la avverte che i passi sono pieni di neve e che è richiesta l'attrezzatura necessaria, ma la ragazza sembra piuttosto indifferente al pericolo e non siamo sicuri che Lama sia troppo cauto.

Nonostante le differenze di prospettiva, uno degli aspetti più belli di questo cammino è l'incontro ripetuto con altre persone, che dà origine a scambi spontanei di saluti e sorrisi, dettati dall'esperienza condivisa.

Lungo il cammino, ci fermiamo vicino a una stele commemorativa per Kukuczka e altri due scalatori morti sulla parete sud del Lhotse, visibile oltre il monumento funebre. Sul lato opposto della valle, possiamo vedere la regione di Amphu Lapcha, con ghiacciai sospesi che sembrano scolpiti con la sinuosità di un drappeggio, miracolosamente sospesi per chilometri.

Dopo circa un'ora e mezza arriviamo a Chukhung, dove ci fermiamo in un lodge ben tenuto per rinfrescarci con un po' di tè. Qui, Cipi, che si era già sentito un po' male durante la salita, decide di tornare al lodge, dove un po' di riposo gli farà sicuramente bene.

Decidiamo di proseguire verso Chukhung Ri, ma fin dai primi pendii sappiamo che presto abbandoneremo la salita: è ripida e dura e raggiungere la vetta richiede uno sforzo prolungato, dato che il dislivello è di circa 800 metri.

Fede è il primo ad arrendersi, mentre Arri, Lama e io raggiungiamo un punto panoramico che ci offre una vista incredibile: dall'Ama Dablam, passando per Amphu Lapcha, Island Peak e Makalu in lontananza, fino al Lhotse e al Nuptse. E tra queste cime, decine di altre cime innevate si ergono da distese di ghiacciai, nevai e morene. Magnifico.

Potremmo accontentarci di questo, ma un piccolo promontorio cattura la nostra attenzione. Lama ci lascia fare da soli questo sforzo inutile, ma una volta in cima, la vista si allarga ancora di più e, cosa più importante, siamo per la prima volta sopra i 5000 metri, come conferma la mappa in seguito.

Ci godiamo il traguardo scattando qualche foto mentre un vento freddo ci frusta il viso. In lontananza, vediamo alcune persone che si fanno lentamente strada lungo il ripido sentiero che porta a Chukhung Ri; di comune accordo, decidiamo che il nostro sforzo finisce qui e iniziamo la discesa, che ci divertiamo ad affrontare di corsa. Poi torniamo a Chukhung e da lì, a passo sostenuto, a Dingboche, dove finalmente ci godiamo un pasto decente.

Non abbiamo raggiunto il nostro obiettivo, ma siamo comunque soddisfatti dei panorami mozzafiato di cui abbiamo goduto e dello sforzo fatto, che speriamo contribuisca a migliorare il nostro acclimatamento.

Il pomeriggio trascorre tra letture, la visione delle foto scattate finora e una partita a carte, che continua dopo cena. La vita nel lodge è animata da un vivace gruppo inglese, il cui umore, aiutato da qualche birra, alza i decibel della serata.

Le previsioni meteo confermano il peggioramento imminente, per cui decidiamo di abbandonare l'escursione prevista per il giorno dopo al campo base dell'Island Peak e di dirigerci invece verso Dougla, per avvicinarci al campo base ed eventualmente accorciare le tappe che avremmo dovuto percorrere sotto la neve o, peggio, sotto la pioggia.

Alle 21:00 tutti si sono già ritirati nelle loro stanze, e io sono l'unica rimasta al caldo della stufa nella sala comune. Mi rendo conto che è anche ora di andare a letto, ma non prima di essermi goduta un po' di cielo stellato, che la notte non troppo fredda mi consente di ammirare.

La mattina dopo, rifacciamo i bagagli e partiamo. Una ripida salita sotto un cielo nuvoloso e freddo mette alla prova la nostra digestione. Presto, tuttavia, camminiamo su un altopiano, dove la dolce pendenza rende la nostra marcia meno difficile.

Arriviamo velocemente a Dougla, una tappa lungo il sentiero con un paio di lodge e poco altro, più una tappa intermedia che un vero e proprio villaggio. Lasciamo i bagagli e, visto il bel tempo, alleggeriamo gli zaini per dirigerci verso Dzongla, allungando la nostra camminata per la giornata.

Prima di ripartire, fa la sua apparizione un timido sole, che si ferma giusto il tempo necessario per iniziare ad assaporare le nuove vette che ci circondano.

La strada per Dzongla è una salita continua lungo il fianco della montagna, con alcuni saliscendi gratuiti che ci fanno, come in precedenza, apprezzare la splendida segnaletica dei sentieri tracciata dalle truppe alpine sulle nostre montagne e maledire tutto questo inutile dislivello.

Tuttavia, la vista intorno a noi si apre su vette come il Lobuche East e su ciò che resta di alcuni ghiacciai, anch'essi non in grado di resistere al duro avanzare dei cambiamenti climatici.

Il cielo si rannuvola gradualmente, fatta eccezione per qualche sprazzo di sole al nostro arrivo, che ci consente di vedere in lontananza dove il sentiero sale al Passo Cho La, a 5400 metri, uno dei tre passi che compongono l'omonimo trekking. La nostra deviazione ci ha effettivamente portato fuori dai percorsi dell'EBC, e questo si percepisce in un modo che è difficile spiegare se non dalle facce più avventurose di chi siede ai tavoli del lodge, come una giovane coppia francese con cui chiacchieriamo, arrivata lì da Cho La, con grande stupore di Lama. Decidiamo di pranzare qui con patatine fritte e uova fritte, mentre un giapponese ordina noodles, che mangia con un rumore sorprendente: all'inizio, sorridiamo tra noi, ma poiché lui insiste, mi viene il classico attacco di risata compulsiva, che mi costringe a correre fuori dal lodge per non ridergli in faccia.

Nel frattempo, un simpatico cagnolino che ci aveva seguito come un fedele animale domestico di famiglia, proveniente da Dougla, si unisce al nostro tavolo. Si addormenta proprio sotto le mie gambe, ma quando è il momento di andare via, non ci segue.

Dopo aver digerito il pranzo, il che non è un'impresa da poco data l'untuosità delle patatine fritte, ripartiamo perché le previsioni e il cielo promettevano un peggioramento pomeridiano.

Dopo pochi minuti inizia una leggera nevicata, che presto diventa più umida e intensa. Acceleriamo il passo, nonostante una scorciatoia in salita, e in men che non si dica siamo di nuovo al lodge di Dougla, non troppo bagnati ma decisamente freddi.

L'interno del lodge, che non è isolato dall'esterno, è piuttosto freddo, ma fortunatamente, mentre beviamo un altro tè, i proprietari accendono la stufa al centro della stanza, alimentata da sterco di yak essiccato. Ci vorranno ore perché il calore si diffonda, anche se le sedie attorno alla stufa rimangono il posto più popolare e offrono l'opportunità di fare un po' di conversazione.

Incontriamo così una coppia australiano/sudafricana e rivediamo una madre e una figlia del gruppo russo, che evidentemente si erano separate dal gruppo per motivi a noi ignoti. Così, a 4600 metri, mentre fuori ha smesso di nevicare, in un lodge che di solito è più una tappa che un luogo di riposo, riscopriamo il piacere del calore di una stufa e del calore umano che vi si raccoglie attorno. La cena è poi apprezzata per la sua semplicità e bontà.

Ci dirigiamo quindi verso le nostre stanze, intirizziti, pronti ad affrontare una delle ultime notti ad alta quota, convinti di poterci riposare un po'. Non sarà proprio così, perché alle 1:32 di notte mi ritrovo a scrivere questo racconto personale, ascoltando la pioggia che per qualche istante picchietta sul tetto mentre, un po' più in là, si sentono i campanacci degli yak.

Non riesco a prendere sonno, così alle 5 del mattino esco con le prime luci dell'alba e scopro che è caduto e continua a cadere uno strato di neve di 5 cm.

Una colazione sostanziosa ci dà la forza di affrontare la ripida salita che in poco meno di un'ora ci porta a 4800 metri, al passo che porta a Lobuche, dove c'è un monumento in memoria di coloro che hanno perso la vita nel tentativo di scalare l'Everest o queste e altre montagne. Inizia a nevicare più forte e c'è nebbia, quindi rimandiamo un momento di riflessione in questo punto al nostro ritorno e ci dirigiamo rapidamente verso Lobuche.

Con una leggera pendenza, la raggiungiamo prima del previsto e ci troviamo di fronte a quello che, in questa distesa innevata, sembra un avamposto verso territori selvaggi. Beviamo un tè, che dura più del solito, giusto per ripararci dalla neve che si è fatta più pesante, ma verso le 11 del mattino decidiamo di dirigerci verso la Piramide EvK2CNR, un centro di ricerca italiano, nei pressi del quale i nostri connazionali hanno costruito un rifugio, ora gestito da nepalesi, che viene sempre elogiato per i servizi che offre, soprattutto rispetto ai lodge di Lobuche. In circa 20 minuti, la raggiungiamo e la piramide ricoperta di pannelli solari salta subito all'occhio.

Entriamo e decidiamo subito di provare degli spaghetti: deve essere rimasto qualcosa di italiano. È la carbonara più strana che abbia mai mangiato, ma tutto sommato è abbastanza buona!

Una volta digeriti e con tutti i dispositivi possibili carichi, decidiamo di concederci una doccia calda, vero must del posto, ma purtroppo i due giorni di maltempo hanno privato il lodge della possibilità di avere acqua calda, quindi dobbiamo arrangiarci con le sempre più utili salviette umidificate.

Pulita e il più fresca possibile, esploriamo la piramide: nonostante un cartello che ne proibisce l'ingresso senza guida, ci avventuriamo dentro, sentendoci in qualche modo autorizzati dal fatto di essere italiani.

All'interno rimaniamo stupiti dalla ricchezza di materiale che troviamo, sia per quanto riguarda il materiale necessario al funzionamento di una struttura del genere (con tutti i pannelli solari che forniscono energia), sia per quanto riguarda gli esperimenti, che spaziano da test fisiologici, come dimostrano un tapis roulant e una cyclette, a studi chimici o geologici, alcuni dei quali risalgono al 2016.

Ecco la traduzione del tuo testo in inglese:

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Ci rattrista vedere come tutto sembri abbandonato, come se la volontà o i mezzi per continuare fossero semplicemente svaniti: sembra che qualcosa sia rimasto incompiuto.

Riflettiamo anche sulla determinazione dei ricercatori che hanno lavorato qui, considerando quanto sia isolato questo posto, nonostante la sua posizione strategica. Purtroppo non possiamo apprezzare la vista perché il cielo rimane coperto, nonostante abbia smesso di nevicare.

Il posto è davvero affollato, non solo per le persone che pernottano qui e riempiono la stanza, ma anche per i visitatori occasionali che provengono dalla vicina Lobuche.

La cena è calda e buona, così come le camere, calde e confortevoli, che ci hanno permesso di dormire meglio rispetto alle notti precedenti, fatta eccezione per un compagno di stanza un po' rumoroso.

La mattina dopo ci svegliamo riposati, accolti da un cielo terso e azzurro che ci consente di scattare una foto della piramide con sullo sfondo il picco del Pumori, un'altra montagna alta più di settemila metri, che prima avevamo solo intravisto. È la vista più panoramica della piramide, una che non possiamo fare a meno di immortalare.

Iniziamo subito a salire lungo un sentiero ripido e incontaminato, con solo tracce di animali visibili nella neve. Malediciamo un po' la guida, pensando che tornare indietro e ricongiungerci al sentiero da Lobuche sarebbe stata un'idea migliore.

Ma ci sbagliamo subito quando, dopo una curva, il sentiero si spiana, offrendoci una splendida vista sul ghiacciaio Khumbu e sulle vette del Nuptse, del Pumori e delle vette satellite, oltre a una vista sulla valle da cui siamo venuti, ora coperta di nuvole con solo le cime innevate che emergono. Lo scenario da questo sentiero è magnifico, soprattutto se paragonato a quello che si vede da chi arriva dal sentiero Lobuche 150 metri più in basso, che è molto più affollato.

Dopo un po', i due sentieri si uniscono e ci rendiamo conto di quante persone si dirigono nella nostra stessa direzione, spesso lentamente, costringendoci a superarle saltando sulle rocce fuori dal sentiero battuto. C'è persino una donna trasportata a cavallo, il che sembra completamente fuori luogo. Immagino che il cavallo, come noi, soffra della mancanza di ossigeno.

Stiamo camminando con qualche saliscendi ma per lo più in salita, ben oltre i 5.000 metri, il che significa che stiamo camminando sospesi sopra l'Europa. Questo fatto non passa inosservato: tutti noi facciamo fatica a continuare, non solo in salita ma anche nei tratti pianeggianti.

In lontananza iniziamo a vedere la lingua del ghiacciaio, nei pressi della quale si trova il campo base: riusciamo persino a intravedere qualche tenda, lasciando ampio spazio alla nostra immaginazione per trasformare quei piccoli puntini arancioni in chiare forme di tende.

Questo ci dà la motivazione per non rallentare e in circa due ore raggiungiamo Gorak Shep, dove possiamo gustare un tè caldo al lodge che ci ospiterà per la notte. Facciamo anche uno spuntino, consapevoli che la fatica è tutt'altro che finita e anche Arri, nonostante cammini con la febbre, decide di tentare di raggiungere quello che è essenzialmente il vero obiettivo del trekking. Dopo circa mezz'ora trascorsa in questo lodge spartano, ripartiamo. Superiamo un tratto iniziale pianeggiante, dove la neve caduta si è sciolta in fango, poi saliamo sulla morena glaciale e procediamo lungo il sentiero che si snoda tra e sopra grandi massi.

Di tanto in tanto, dal lato opposto della valle, sentiamo il rumore dei detriti che cadono, il che ci ricorda che ci troviamo in una zona in cui tutto è in movimento, perfino la massiccia roccia dell'Everest.

Davanti a noi il panorama diventa sempre più spettacolare: la conca del campo base (dove ormai si riconoscono distintamente le tende) è circondata da imponenti vette sempre più vicine e, soprattutto, da imponenti formazioni di ghiaccio.

Dopo averlo inizialmente identificato erroneamente, ora identifichiamo inequivocabilmente l'Icefall: è la parte più instabile del ghiacciaio che gli sherpa e gli scalatori d'alta quota devono attraversare più volte durante la scalata dell'Everest.

Si trova tra il campo base e il campo uno, quindi è necessario attraversarlo ogni volta che si sale ai campi più alti per periodi di acclimatamento. Per questo motivo, all'inizio della stagione di arrampicata, Sherpa altamente specializzati, noti come Icefall doctors, lo mettono in sicurezza con corde e scale, cercando di posizionarle nei punti in cui il ghiacciaio si muove meno.

Non abbiamo nemmeno bisogno di avvicinarci: basta osservarlo da lontano e ammirare come il ghiaccio in movimento crei sculture così magnifiche.

Tutta questa scena ci fa soffermare più a lungo di quanto il nostro corpo preferisca, ma qualche momento di riposo in più non ci dispiace.

Dopo una breve discesa, arriviamo finalmente al famigerato campo base, che non ha confini definiti, a parte le tende sparse, le iscrizioni sulle rocce e le bandiere di preghiera appese ovunque.

Dopo pochi passi, troviamo una roccia sulla sinistra, da cui pendono centinaia di bandiere, con la scritta: Campo Base dell'Everest 5364 m. Ci mettiamo in coda per le foto di rito e aspettiamo che tutti arrivino, il tutto guardandoci intorno con stupore.

Il campo si estende per centinaia di metri davanti ai nostri occhi, costeggiando la lingua del ghiacciaio che scende direttamente dall'Everest, proprio come descritto.

Dopo un po' decidiamo di avventurarci, camminando lungo il sentiero di ghiaia sotto il quale si intravede il ghiaccio: siamo infatti sul ghiacciaio.

Ai lati del sentiero si alternano grandi tende adibite a cucine o sale comuni e piccole tende adibite a dormitori per le varie spedizioni commerciali. Dopo aver notato che l'attività nel campo è molto minore di quanto ci aspettassimo, forse a causa dell'ora di pranzo, decidiamo di intraprendere il cammino del ritorno, stanchi e affamati.

In meno di un'ora, siamo di nuovo a Gorak Shep, dove ci godiamo un pasto abbondante mentre decine di persone continuano a dirigersi verso l'accampamento, nonostante le temperature in calo e il cielo sempre più nuvoloso. A Gorak Shep, anche qualche fiocco di neve ben definito inizia a cadere, niente di cui preoccuparsi per chi cammina, ma qualcosa che conferma che è saggio essere nei lodge nel primo pomeriggio per evitare che il meteo peggiori.

Il lodge è freddo e solo verso le 16:00 i proprietari del lodge decidono di accendere la stufa, che presto inizia a darci un po' di calore. La cena, finalmente a base di carne, anche se con un eccesso di aglio, viene servita alle 18:30. Questo ci dà il tempo, con lo stomaco pieno, di uscire e guardare l'ultima luce del giorno illuminare le cime vicine con una tonalità rosata, rapidamente sostituita dai toni freddi che precedono la notte.

Siamo a 5180 metri, la notte più alta del trekking, e possiamo ancora godere di tale spettacolo. Un pizzico di emozione ci pervade, soprattutto alla luce della giornata appena trascorsa.

Trascorriamo la serata leggendo nella sala comune del lodge, assorbendo l'ultimo calore della stufa prima di ritirarci nelle fredde stanze. Ci attende un breve riposo, perché il giorno dopo partiremo alle 4:30 del mattino per scalare il Kala Patthar, una piccola montagna vicina con una splendida vista sull'Everest (o almeno così speriamo). Il riposo è breve e travagliato: forse è il freddo, forse l'alta quota, ma dopo un paio d'ore iniziali di sonno, non riesco più a chiudere occhio.

Verso le quattro, dopo una visita infruttuosa alla sala comune, riesco finalmente ad addormentarmi, ma presto suona la sveglia. Ci dirigiamo verso Kala Patthar.

Dopo un tè caldo, siamo già in cammino. Fuori è buio e i nostri passi sono illuminati solo dalle lampade frontali, perché il sentiero diventa subito ripido. Inizio subito a soffrire il freddo alle mani e ai piedi, oltre all'enorme sforzo della salita. Ci sono più di un punto in cui penso di fermarmi, ma vedere i miei compagni di scalata a pochi metri da me mi sprona, e ne vale la pena.

All'alba siamo a pochi metri dalla vetta e davanti a noi si erge imponente la cima dell'Everest, sulla cui sinistra vediamo sorgere rapidamente il sole, per un'alba emozionante e indimenticabile.

Dopo aver scattato le consuete foto in controluce, saliamo gli ultimi metri che ci separano dalla cima del Kala Patthar, per poter dire ufficialmente di averla conquistata.

Anche qui ci prendiamo un po' di tempo per scattare qualche foto e dare un'occhiata all'Everest, ora difficile da guardare perché il sole splende direttamente da quella direzione.

Nel frattempo i miei piedi non si sono ancora riscaldati, quindi decidiamo subito di scendere; è solo durante la discesa che un po' di calore inizia a tornare alle mie estremità.

Arriviamo al rifugio piuttosto esausti, tanto che il mio progetto di cambiarmi per la discesa salta perché ho ormai poche energie.

La tanto desiderata colazione ci rimette in forze con miele, marmellata e burro di arachidi e siamo pronti per affrontare la discesa.

Si chiama discesa, ma la realtà è che il primo tratto da Gorak Shep è un continuo saliscendi dove le gambe, già affaticate dalla salita mattutina, faticano parecchio. Incontriamo un sacco di gente e in alcuni punti c'è parecchio traffico, il che non si addice molto a questi luoghi. Tuttavia, è degno di nota che solo in quest'ultimo tratto del trekking abbiamo notato una tale folla, cosa che non si nota molto nelle tappe precedenti.

Ripercorriamo il sentiero del giorno prima, fino al punto in cui il sentiero si divide tra il percorso verso la piramide e quello che scende verso Lobuche. Questa volta, prendiamo quest'ultimo, dirigendoci lungo un sentiero sconosciuto che si snoda lungo la valle accanto ai cumuli di detriti morenici. La bella giornata ci consente di godere ancora una volta di altri magnifici paesaggi montani, così come scene di vita quotidiana con gli yak che pascolano liberamente, avvicinandosi a noi senza paura. Il nostro passo è veloce, in parte perché il sentiero è bello e leggermente in discesa, in parte perché siamo impazienti di scendere. Ci fermiamo brevemente a Lobuche per un tè prima di proseguire.

Anche Lama è di buon umore, soddisfatto del successo del trekking e del raggiungimento dei nostri obiettivi.

Da Lobuche in poi seguiamo lo stesso percorso fatto due giorni fa sotto la neve, e il cambiamento è radicale. Anche in questo tratto, i panorami attorno a noi sono mozzafiato, e senza rallentare il passo scattiamo qualche foto. Dopo un'ora, arriviamo al memoriale delle vittime dell'Everest. Ci fermiamo, leggendo i nomi incisi sulle lapidi, ma soprattutto, assaporando l'atmosfera sacra di questo luogo, un balcone che si affaccia su decine di bellissime vette, che è assolutamente appropriato come luogo per ricordare coloro che sono morti in montagna. Nonostante molte persone si fermino qui, le voci si perdono nel vento, e il silenzio è rotto solo dallo svolazzare delle bandiere nepalesi appese ovunque, dandoci un senso della transitorietà della vita ma anche della leggerezza con cui può essere affrontata.

Dopo qualche momento di bella e profonda riflessione, ripartiamo: la discesa verso Dougla è veloce e piacevole, a patto di stare attenti a non farsi ingannare dalle rocce ricoperte di sabbia. In poco tempo siamo di nuovo al lodge dove abbiamo dormito solo tre giorni prima e, dopo un breve riposo, ci dirigiamo verso Periche.

Per arrivarci, scendiamo lungo il letto del fiume, che non è particolarmente pieno nonostante la stagione. Le rive del fiume sono friabili e, in effetti, qualche anno prima, una massiccia alluvione aveva spazzato via i piccoli lodge di Dougla, probabilmente costruiti troppo vicino al fiume. Non che quelli ricostruiti siano molto più lontani, ma almeno sono qualche metro più in alto. La valle è sferzata da un vento freddo che ci colpisce il viso, costringendoci a coprirci nonostante il sole caldo. Dopo una prima discesa, si apre davanti a noi una lunga pianura, che fa sembrare Periche un miraggio che, dopo un po', si materializza con case, muri a secco, lodge ben tenuti e negozi: in questa semplicità, sembra di essere tornati alla civiltà.

Ci facciamo un buon pranzo, che però non ci sazia abbastanza data la nostra fame.

Nonostante ciò, abbiamo ripreso le energie per concludere il lungo viaggio di oggi, che ci porta a Pangboche. Questa volta però dormiamo nella parte alta del villaggio, caratterizzata da case costruite in verticale all'interno di una piccola conca di montagna. Al centro delle case, spicca il rosso del monastero, uno dei più antichi, sopravvissuto nel tempo, che visiteremo il giorno dopo.

La nostra priorità è senza dubbio una doccia calda, e per fortuna siamo accontentati: mai una doccia è stata un piacere così grande.

Dopo un piatto di chow mein, la loro versione di noodles (eccellente), e un paio di partite a scacchi, crolliamo a letto esausti.

In un attimo è mattina: non dormivo così bene da giorni. Che bellezza.

Al mattino, dopo una colazione con vista mozzafiato dove il monastero proprio di fronte a noi si staglia contro la montagna innevata alle nostre spalle, andiamo a visitare il monastero, dove sono conservati anche i resti (una testa e una mano) di uno yeti. Come in altri monasteri, vediamo le scritture e le vesti dei monaci, che qui non sono presenti. Tuttavia, la visita è molto piacevole.

Ci dirigiamo poi verso Phortse, seguendo un sentiero che, visto dall'altro lato della valle, sembrava correre in piano lungo il pendio della montagna: non è così. Ancora una volta, è un continuo saliscendi, con una sola costante: la vista di Tengboche e del suo monastero che si staglia sulla valle, accompagnandoci fino a quando non si apre una discesa sulla nostra destra, in fondo alla quale vediamo Phortse, un tipico villaggio Sherpa con campi ben definiti che si estendono lungo il pendio discendente della montagna, intervallati da bassi edifici, per lo più abitazioni ma anche qualche lodge. Ci precipitiamo giù e raggiungiamo rapidamente il villaggio, pronti a dissetarci con del tè.

Quello che chiamiamo lodge in realtà sembra più il cortile di una casa privata, e l'atteggiamento della padrona di casa lo riflette. Non le importa particolarmente di noi, se non del minimo indispensabile. Approfittando della nostra stanchezza, Lama mi prende in giro: quando gli chiedo del bagno, mi indica una piccola struttura poco distante dalla casa. Apro la porta e trovo un pavimento di legno con un buco al centro e foglie secche ai lati: non lo lascio vincere e faccio finta di niente. È anche un'esperienza: "WC nepalese", dirà più tardi, sorridendo quando gli faccio notare che mi aveva un po' preso in giro.

Ci attendono altre sfide, quindi partiamo e, dopo aver visto in lontananza la cima del Cho Oyu, scendiamo verso il fiume lungo un ripido pendio, seguito, naturalmente, da una salita altrettanto ripida.

Le gambe sono appesantite dai giorni di cammino e soprattutto dalla fatica del giorno prima, e ogni passo è una fatica immane, soprattutto perché la pendenza della salita richiede uno sforzo muscolare, non solo di resistenza. Facendo pochi passi alla volta, alternando numerose e frequenti pause, arriviamo finalmente in cima. L'arrivo è bellissimo, tra yak che pascolano liberi e qualche casa, attorno alla quale troviamo bambini che giocano con piccole rotelle, come usciti da un mondo dimenticato dal tempo.

Ecco la traduzione in inglese del testo che hai fornito:

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**Traduzione:**

All'ingresso delle scale che avevamo preso per andarcene, sembra di essere tornati in città, anche se è un villaggio a 3440 metri. E sembra che sia passata un'eternità dal giorno in cui siamo partiti.

Appena arrivati ​​al lodge, senza nemmeno sederci, decidiamo di festeggiare con un paio di meritate birre, concludendo così la nostra astinenza ad alta quota.

Dopo esserci lavati di nuovo e riempiti la pancia, la sera replichiamo il brindisi con una Guinness all'Irish Pub: ecco perché pensare di essere tornati in città non era poi così assurdo. Namche, nella sua piccolezza, ti offre persino la possibilità di entrare in un pub adornato di magliette e bandiere, con biliardino e calcio balilla, birra eccellente e sport in diretta, un posto che nemmeno a casa tua potrebbe reggere il confronto...

Lasciamo le nostre firme sul muro del locale (non è vandalismo, notiamo che molti prima di noi hanno fatto lo stesso) e usciamo verso le 22:00, assonnati, lasciando il pub con alcuni clienti decisamente di buon umore.

Siamo molto più rilassati perché è qui che possiamo considerare formalmente concluso il cammino: anche se ufficialmente manca ancora una tappa, è qui che realizziamo di avercela fatta, ed è qui che finalmente comunichiamo a casa che stiamo ancora tutti bene, grazie al benedetto WiFi.

La mattina dopo, ancora più riposati, ripartiamo verso Lukla: ora abbiamo più tempo per goderci le bellezze e il comportamento delle persone che vivono nei villaggi che attraverseremo lungo il cammino.

Ora possiamo vestirci in modo leggero e proteggerci abbondantemente dal sole mentre scendiamo rapidamente da Namche verso il fatidico ponte sospeso, che questa volta attraversiamo con molta meno attenzione.

Il percorso è infatti identico a quello fatto all'andata, e quindi non cattura più molto la nostra attenzione, e anche le salite che affrontiamo sono gestibili: l'unica sosta forzata è dovuta al controllo del lasciapassare, che avviene anche all'uscita di Monjo. Lasciamo che Lama si occupi della burocrazia nepalese, e poi continuiamo la marcia, fermandoci solo per un tè. Questo tratto di strada è un continuo saliscendi, e con le energie quasi esaurite, il nostro passo non è esattamente veloce. Arrivati ​​a Phakding, decidiamo di riposarci, approfittando della pausa pranzo, ma nonostante ciò le cose non migliorano.

Nonostante la presenza di ossigeno in quantità pressoché inusuale dopo le giornate in alta quota, siamo costretti ad un altro pit stop dove, riforniti di bevande gassate, ci rifocilliamo, pronti ad affrontare gli ultimi 200 metri di dislivello che ci porteranno a Lukla.

Quando arriviamo siamo così esausti che non pensiamo nemmeno a festeggiare, ma dentro di noi cresce la soddisfazione di esserci riusciti.

Il lodge è oltre l'aeroporto, quindi dopo aver attraversato il villaggio, ammiriamo ancora una volta, un po' timorosi, la pista che per noi ora significa decollo, che termina solo sul bordo della montagna: o si decolla o si decolla. Una torre di controllo mitica e il via vai degli elicotteri non ci rassicurano, ma un paio di birre e una cena al lodge ci fanno dimenticare tutto.

A tutto questo si aggiunge la stanchezza, che mi fa addormentare poco dopo aver finito di cenare, proprio sui tessuti morbidi che ricoprono le panche della sala da pranzo. Fortunatamente, vengo svegliato e passo la notte a letto; altrimenti, il freddo si sarebbe fatto sentire.

La mattina dopo alle 5:30 siamo già in aeroporto, pronti a lasciare le montagne: avere un volo in anticipo è sempre un vantaggio perché al mattino il meteo è molto migliore e si riduce il rischio di cancellazione del volo.

In effetti il ​​nostro volo è puntuale e questa volta, senza le nuvole che avevamo all'andata, ci rendiamo conto di quanto sia basso il volo: le cime delle montagne sottostanti sembrano davvero a portata di mano mentre le sorvoliamo, verdi e rigogliose.

Il tempo per ammirare tutto questo dura solo pochi minuti perché, come all'andata, dopo 20 minuti siamo di nuovo a terra, nel caldo dell'aeroporto di Ramechap.

Qui possiamo finalmente toglierci i pesanti abiti da montagna e vestirci in modo più leggero mentre aspettiamo il passaggio per Kathmandu, convinti che Lama sia andato a cercare il nostro minibus.

Dopo qualche minuto di attesa, lo vediamo arrivare, ma invece di un minibus, indica una jeep: sembra che abbia dovuto accontentarsi di un passaggio, e questo è il meglio che è riuscito a trovare.

La traduzione migliore è bagagli caricati sul tetto, e Cipi e io stipati nel bagagliaio, seduti su due sedili uno di fronte all'altro, giocando a Tetris per far entrare le gambe e gli zaini. Tutto questo con un caldo che diventa sempre più opprimente.

Siamo ancora piuttosto assonnati, quindi riusciamo ad addormentarci anche in posizioni scomode, almeno finché non ci svegliano i dossi della strada.

Una sosta a metà strada ci offre l'occasione di fare colazione: qui i dolci sono un miraggio, quindi ci accontentiamo di un panino al pollo, con cipolle sufficienti a svegliare chiunque.

Non noi, a quanto pare, perché nella tappa successiva del viaggio, continuiamo come prima, appisolandoci con la testa che ondeggia, fino a raggiungere la periferia di Kathmandu. Qui, il caldo, unito al traffico caotico e alla curiosità di vedere come se la cava l'autista, ci tengono svegli.

Dal lunotto posteriore della jeep, il nostro sguardo vaga nella direzione da cui siamo arrivati: lo smog e la polvere creano una foschia che impedisce di vedere in lontananza.

Possiamo solo immaginare le montagne che ci siamo lasciati alle spalle, e già un po' di nostalgia ci assale, consapevoli di aver vissuto qualcosa di veramente straordinario e, forse, irripetibile.

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